C’è chi ha definito la cultura “superflua”, chi con disinvoltura e mancanza di sensibilità ha etichettato le attività dello spettacolo e dell’intrattenimento come “non essenziali”. C’è chi è convinto che chiudere cinema, musei e teatri sia stata una mossa buona e giusta. C’è chi non considera l’impoverimento dello spirito come un duro colpo anche alla salute del corpo.
È un dato di fatto che chi ci governa ha completamente sottovalutato l’economia culturale, ignorandone forza occupazionale e missione sociale. Appare evidente, senza dover ricorrere ad algoritmi e altri misuratori statistici, come in Italia il mondo della cultura e dei saperi sia stata reso “invisibile”, relegato al ruolo di appendice, e con esso i suoi lavoratori, i suoi artisti, le sue maestranze, i suoi visionari, le sue fragilità, le sue ricchezze.
Eppure la vita culturale è il tratto distintivo di un Paese, è il cibo spirituale di un popolo, è la password per il benessere e la democrazia, è l’antidoto contro il pensiero unico, è l’armatura magica e nobile della libertà, così compromessa in questi tempi sospesi e spaesati. In una comunità che mira a tracciare un futuro credibile, “fare cultura” è il pane quotidiano, rappresenta la garanzia della propria identità storica e la decisiva molla per una crescita interiore.
Chi scrive, canta, danza, suona, organizza, crea ed emoziona è atteso da un lavoro complicato, ma meraviglioso: riportare al centro dell’esistenza lo spirito di risollevarsi, l’immaginazione, l’arte, la voglia di reagire con la bellezza delle idee.
Chi vive con e per la cultura sa che non sarà chiamato a ripartire, ma a ricostruire. Sì, ricostruire con coraggio, di questo si tratta: riattivare la giostra dell’anima, recuperare sogni, riaprire occhi, curare solitudini e soprattutto riaccendere la vita dal vivo.